Parrocchia Mariano al Brembo

Il bombardamento

Con l’entrata in guerra dell’Italia, e soprattutto dopo l’8 settembre 1943, con la dichiarazione dell’armistizio tra l’Italia e gli anglo-americani, tutto il centro-nord si trovò in balia dei tedeschi che occuparono il territorio e le fabbriche di maggior interesse. Tra queste non poteva mancare la Dalmine che, per la sua importanza nel campo siderurgico passò sotto la loro diretta dipendenza.

Il 6 ottobre 1943 l’incaricato tedesco per la siderurgia in Italia, Dr. Heinrich e il Direttore Generale della Dalmine Ing. Vincenzo Zampi, firmarono un accordo con cui veniva assicurata la produzione dell’acciaio per le necessità belliche della Germania e dell’Italia, mentre allo stabilimento della Dalmine veniva assicurata la protezione bellica.

In questo quadro la Dalmine venne ad assumere un’importanza primaria in campo nazionale. La sua struttura produttiva venne potenziata con l’installazione di un quarto forno Martin e di due forni elettrici.

Questa situazione non sfuggì al comando anglo-americano. Dall’Archivio privato di Roberto Fratus provengono alcuni dei documenti storici più importanti riferiti alla situazione storica. Cominciamo dal primo rapporto: “a 1/2 miglio di distanza dall’autostrada Milano-Bergamo, direzione nord-ovest ed a circa 8,5 da Treviglio, la fabbrica costruisce tubi per proiettili di missili. Produce 9.000 tons di proiettili al mese, utilizzati dai soldati tedeschi.”

Il comando anglo-americano cominciò a considerare la fabbrica come obiettivo bellico, alla stregua delle altre città industriali del nord. Alcune incursioni aeree si registrarono sull’aeroporto di Orio al Serio, ed il ponte ferroviario di Ponte S. Pietro, che non sarà mai distrutto.

Dalmine Operazione 614

Il 6 luglio 1944 avvenne la tragedia più grave che in tutto il periodo bellico abbia mai colpito la popolazione e l’industria bergamasca.

Il 99° Gruppo Bombardieri comandato dal Col. Ford J. Lauer, di stanza al campo aereo Tortorella (Salerno) e il 463° Gruppo Bombardieri comandato dal Col. Frank Kurtz del campo aereo di Celone (Foggia) vennero incaricati di eseguire la missione denominata in codice “Operazione 614”, che aveva per obiettivo le “Acciaierie Bergamo (Dalmine) a 45° 38’ 45″ N 09° 35’ 37” E (conosciute anche come Officine Mannesmann).

Allegate alle istruzioni vi era pure una piantina, disegnata a mano, dove era segnato il punto da colpire, raccomandando attenzione per un campo di prigionieri che si trovava poco prima.

Gli aerei conosciuti come “fortezze volanti”, arrivarono sullo stabilimento provenendo da est. Partirono in 27 (uno tornerà alla base prima di raggiungere l’obiettivo) aerei dei tipo Boeing B17G Flying Fortress da bombardamento, prodotti nel 1943. L’apertura alare di questi aerei era di 31,62 metri ed erano lunghi 22,66 metri. La velocità massima che potevano raggiungere era di 462 Km/h a 7.620 metri d’altezza, e un’autonomia di viaggio di 3.220 km.

Ogni aereo era provvisto di 13 mitragliatrici e trasportavano 7.985 kg di bombe, e l’equipaggio era composto da 9 persone. A questi si affiancarono nell’operazione altri 37 aerei che volavano a 1.500 metri circa sopra di loro, ed avevano il compito di proteggerli.

Alle 8,10 si trovavano tutti sopra Foggia, alle 8:46 sul Mar Adriatico, all’altezza di San Benedetto del Tronto (AP); poi entrarono nella pianura Padana sorvolando Chioggia e salirono fino a Riva del Garda (TN), per poi scendere verso Sarnico, punto iniziale dell’attacco.

Il servizio di informazione americano era al corrente che la contraerea di Bergamo disponeva di 24 cannoni pesanti e ne tennero conto.

Senza preavviso, alle ore 11:02 ed a 23.500 piedi d’altezza arrivò il 463° stormo, seguito alle 11:04 dal 99°.

Sulla Dalmine furono scaricate tonnellate di bombe “con spoletta d’ogiva a 0,1 secondo e spoletta di fondello mista a 0,01 e 0,025 secondi“. In tale occasione non suonò nessuna sirena e, rimasero sul terreno 278 morti e più di 800 feriti: 244 morti alla “Dalmine” e 13 in altre aziende, oltre a 21 civili.

Tutte le strutture più importanti dello stabilimento furono distrutte o seriamente danneggiate: le acciaierie, i laminatoi, gli aggiustaggi.

In questa tragedia collettiva a Mariano venne distrutta anche la casa della famiglia Cividini dove perirono 8 persone: la madre e 7 bambini.

Nel rapporto finale sull’ “Operazione 614”, risulta che i 26 aerei avevano sganciato 77 e 3/4 di tonnellate di bombe da 500 libbre e 50 pacchi di nichel, dichiarando “l’obiettivo ben colpito, e senza alcun danno da parte della contraerea.

Alla fine si contarono i morti: 231 operai, 17 impiegati e 21 civili. I soccorsi furono immediati e la gente si gettò con slancio nel recupero delle vittime e nel salvataggio dei feriti, incuranti degli eventuali pericoli di crolli o di ordigni inesplosi.

Con l’arrivo dei vigili dei fuoco di Bergamo, Milano, Como, Busto ed Erba, la presenza del clero locale e dei frati, tutti in maschera e guanti si portò a termine il recupero delle salme. Alcuni operai si offrirono volontari nel donare il sangue.

Vengono immediatamente trasmessi dagli organi competenti le disposizioni da operare in caso di nuovo allarme:

1° – in caso di allarme i lavoratori…possono lasciare il posto di lavoro per rifugiarsi nei ricoveri…
2° – entro il termine di 20 minuti dal segnale di cessato allarme…
3° – chi, trascorsi i 20 minuti, non si ripresentasse…

Lo sconcerto e la disperazione durò parecchi giorni, mentre i dipendenti rimasero a casa e per una settimana continuarono gli allarmi aerei.

Il giorno 12 luglio arrivò l’Ing. Zimmerman che impose l’immediata ripresa dell’attività a partire dal giorno 24. E così fu.

Ma la polemica scoppiata subito dopo la tragedia, e che continua tuttora è: Perché non fu dato l’allarme?

L’avvocato Carli, segretario dell’unione Provinciale dei Lavoratori dell’industria indirizzò una lettera al capo della Provincia sig. Vecchini, nella quale era detto che: “la Direzione non aveva voluto dare il segnale di allarme per non interrompere il lavoro”.

Il capo della provincia in un telegramma dei pomeriggio, indirizzato al ministro dell’Interno della Repubblica di Salò, così scrive invece: “Ore 11:05 sorvolo periferia di Bergamo squadriglie 26 bombardieri diretti Dalmine che è stata bombardata ore 11:06. Comitato Milano segnala allarme ore 11:12. Allarme non viene diramato essendo aerei già sicuramente passati”.

Un anno dopo, il 10 agosto 1945, sono rese note le conclusioni della relazione della commissione nominata dal prefetto: ” Il segnale d’allarme non era stato dato perché l’Ufficio Germanico di Milano, il quale solo aveva la facoltà di ordinarlo, lo aveva dato con deplorevole ritardo. Detto Comando Germanico, infatti, era solito segnalare l’allarme solo in caso di imminente pericolo di grandi formazioni, allo scopo di non far interrompere il lavoro negli stabilimenti di guerra, come appunto nel caso della Dalmine”.

Una volta ricostruita completamente il 29 gennaio riprese a funzionare a pieno ritmo, ma venne nuovamente colpito il 12 e 14 aprile, con pesanti danni ai laminatoi, ma, fortunatamente non si registrarono altre vittime.

Ricordi

I ricordiLe immagini tratte dall’Archivio Storico della “Dalmine” ci mostrano gli effetti dei massiccio bombardamento.

Per tanti torna alla memoria quel giorno di cinquanta anni fa: la paura, il dolore, la rabbia e alla fine, la conta dei morti.

Tra questi ci pare doveroso quello del signor Giuseppe Cividini (tra i sopravvissuti della sua famiglia distrutta in quel mattino di luglio), che ci racconta… “Abitavo con la famiglia in una casa vicino alla “Baggina” dove vivevano anche la famiglia Zambelli, Brembilla e Orlandi.

Quel giorno, era un giovedì e come tutti i giovedì asili e scuole erano chiuse: i miei sette fratelli erano tutti a casa con mia madre, mentre mio padre era al lavoro e un altro mio fratello era al fronte. Anche io ero lontano da Dalmine.

Il reparto in cui lavoravo, l’attrezzeria, era stata trasferita a Villa d’Almè per proteggere i macchinari, particolarmente sofisticati, da eventuali attacchi aerei.
Poco dopo le 11:00 un operaio da l’allarme: una colonna di fumo sale dalla zona di Dalmine. Ci precipitiamo tutti all’aperto e vediamo decine di bombardieri in volo nel cielo limpido invertire la rotta e allontanarsi.

L’ingegner Righetti cerca ripetutamente di mettersi in contatto con lo stabilimento, ma inutilmente: solo dopo un’ora e mezza circa ci viene detto di tornare a Dalmine perché gli americani hanno bombardato lo stabilimento.

Io corro a Villa d’Almè e salto sul primo treno che però a Paladina si ferma e non riparte più. Allora decido di proseguire a piedi e verso le 14:00 arrivo davanti al municipio di Dalmine, dove mi si fa incontro un amico che mi fa salire sulla sua bicicletta e mi porta fino al luogo in cui sorgeva la mia casa: quello che vedo è un cumulo di macerie e mio padre seduto fra i detriti che piange e chiama per nome i miei fratelli.

Il mio fratellino più piccolo, che aveva solo tre anni, era all’aperto ed è stato colpito alla testa da una grossa scheggia: tutti gli altri miei fratelli e mia madre sono rimasti sotto le macerie: la casa, colpita in pieno, si è afflosciata sullo scantinato e noi abbiamo scavato per giorni per recuperare le vittime. Le altre famiglie hanno avuto in tutto otto morti.

Non posso dimenticare la straordinaria partecipazione di tutti: decine di persone accorsero e ci aiutarono con ogni mezzo a cercare i nostri cari, l’intero paese ci fu vicino in quei giorni che per noi furono davvero terribili”.

La cugina, nata alcuni giorni prima del 6 luglio 1944, ricorda, attraverso i racconti dei suoi genitori quella tremenda esperienza:

“La mattina di quel giorno, zio Luigi, suo figlio Giuseppe e papà, erano fuori Mariano a lavorare. Giovanni, altro figlio dello zio, era invece militare. Il resto della numerosa famiglia era a casa, una casa che risultò essere fatale, essendo la sua collocazione adiacente allo stabilimento “Mannesman” di Dalmine, il quale era l’obiettivo militare dell’incursione aerea. Sulla “strada bianca”, così chiamata quella che a quel tempo collegava Mariano a Dalmine, lo zio aveva un’altra casa, posta un po’ più a est della fabbrica, che subì la stessa sorte della prima.

Testimoni dicono che le pietre degli uffici distrutti, sul vecchio acciottolato per Dalmine, furono recuperate e utilizzate per le fondamenta dell’erigendo oratorio maschile, ove il vescovo Mons. Bernareggi in una cerimonia solenne pose la prima pietra, una bottiglia contenente uno scritto a ricordo, fu murata con il macigno. Diversi anni rimase alla luce del sole, il perimetro della base, questo di trova all’inizio di via Tiraboschi, ove ora sorge un negozio alimentare, poi in un secondo tempo, si pensò invece di ricavarlo dalle vecchie scuole elementari, dove tuttora è sistemato.

Tornando a quella fatidica giornata, mia madre racconta, aveva deciso proprio quella mattina di farmi conoscere zia Angelina e la sua numerosa famiglia.

In quella casa adiacente lo stabilimento, si era recata diverse volte, anche a cucire a macchina indumenti, per l’imminente nascita. Fu così che sistematami per bene, mi prese in braccio, attraversò la loggia della casa al piano superiore, dove si affacciavano le quattro porte delle rispettive camere da letto, tre erano occupate da altrettanti zii con le loro famiglie, la penultima era quella di nonna Rosa, mamma di papà, la vide sulla porta e mamma la salutò, quindi scese la scala di pietra.

Arrivata al cancello, un provvidenziale presentimento le fece cambiare idea, scelse la strada di via Cimaripa, camminò sino quasi al limite, dove abitava la sua famiglia d’origine.

Più tardi, lei e suo fratello udirono dapprima un impercettibile rumore, che poi via via andava aumentando, nella distesa della campagna, ricorda, poterono osservarli bene, li videro avanzare da lontano, erano particolarmente lucidi e argentei nel riverbero del sole, grandi, addirittura eleganti nel loro procedere verso l’obiettivo.

Gli aerei con il loro carico di morte, stavano sacrificando vittime che nulla avevano a che fare con la guerra, otto persone, parenti, che avrei dovuto conoscere.

In quel breve spazio di tempo la mamma pensò anche alla suocera, che poco prima aveva salutato, la quale non voleva mai ripararsi nei rifugi, ma che, con una nipote, la Rosina, trovava sempre scampo nel suo rifugio personale, il grande letto della “sua” stanza, perché sosteneva “se proprio devo morire, succederà nel mio letto e nella mia stanza”.

Il rosario che teneva sempre nella profonda tasca della sua lunga gonna, scorreva tra le sua dita in quei momenti d’inferno, sapeva che l’unica cosa da fare era solo e soltanto pregare. E lei pregava.

Fu il cugino Lino, assieme allo zio Angelo, a correre per primi sul posto della tragedia; videro in anticipo gli orrori lasciati su quel campo.

Incontrarono Pierino, l’ultimo dei fratelli colpiti, all’entrata del recinto di casa, che letteralmente non aveva pietra su pietra, perché sprofondata in una voragine paurosa, il piccolo si presentò loro con una larga ferita in pieno viso, poi sangue, tanto nero e fumo.

Tutte le vittime sepolte sotto le macerie, con l’aiuto di volontari furono estratti, dopo essere stati lavati, perché irriconoscibili, trasportati nella nostra abitazione: la casa paterna. La nonna era là, ad aspettarli. Passarono tutti dalla scala di pietra. Entrarono tutti nella “sua” stanza.

Cinque salme furono adagiate nel suo letto grande, le altre, quello che ciò di loro si era riusciti a trovare, sistemate sui due comò della camera…Solo poco tempo prima questa, era il “suo” rifugio sicuro, ora era il simbolo della furia umana, dove le membra dei corpi, faticavano a riconoscersi per il quieto dormire.

Sicuramente in quel giorno, i capelli di nonna Rosa, che dopo qualche anno avrei aiutato a pettinare, modificarono un po’ il loro colore e si diradarono, ciò che la natura avrebbe fatto nel tempo l’uomo lo rese cinicamente immediato.

Di lui, lo zio Luigi, marito e padre delle vittime, rivedo negli occhi l’ansia di quei momenti. Ma l’energia emanata dalle bombe, la riversò nella fede e nel lavoro. Nella fede per la testimonianza data a livello comunitario, nel lavoro perché con gli altri due figli rimasti, seppe operare miracoli di ricostruzione ambientale, ma soprattutto, penso, personale.

Lui infatti tutti gli anni, nell’imminenza dei vari anniversari, si allontanava da Mariano, andava in “ferie”, forse proprio per una verifica più specifica della sua individuale ricomposizione, che rapportava a Dio, al quale fiduciosamente credeva, nonostante l’inumana prova.

Dal canto mio, sono ancora in attesa di conoscere zia Angelina, le cugine e cugini Maria, Felicina, Vittoria, Eugenio, Clotilde, Paolina e Pierino. Otto persone non conosciute sono otto sorrisi non ricevuti e altrettanti non dati. Troppi!

Tuttavia questo incontro mancato spero sia solo rinviato, perché nella certezza della Resurrezione, la conoscenza reciproca si realizzerà”.

Gianni Vitali, uno dei mille e più lavoratori che, ignari di quello che sarebbe successo dopo le ore 11:06 nel giorno del 6 luglio 1944 ricorda e non dimentica:

“Alle ore 11:00 mi trovo sul posto di lavoro (nel reparto meccanica). Sto revisionando una macchina utensile mettendoci tutta la mia attenzione. Purtroppo vengo distolto dal mio intento per l’improvvisa mancanza dell’energia elettrica.

Depongo i miei attrezzi ed esco dal reparto per godermi lo spettacolo di una bellissima giornata, con il sole che splende nel cielo azzurro terso con tinte celesti. Invaghito da un così maestoso spettacolo mi viene spontaneo un pensiero ossequioso all’artefice di codesta bellezza e mi soffermo ad ammirarlo.

Alle ore 11:06 sono ancora fermo con lo sguardo rivolto ad est quando intravedo in cielo uno sfarfallio di luci accompagnato da un rumore cupo. Da quel momento il maestoso spettacolo si trasforma in un orrendo momento di morte.

Vedo alzarsi dai reparti acciaierie una nube nera dalla forma di un fungo. Rimango per alcuni secondi attonito, non riesco a rendermi conto di quello che sta avvenendo, mi metto correre, riesco ad uscire ancora dalla vecchia portineria (prima che venga abbattuta da una bomba), mi cadono le scarpe, mi sanguinano i piedi, corro sui vetri caduti dalla torre e dal refettorio…corro…sorpasso molti miei colleghi (più anziani di me…avevo allora 18 anni e un mese), tutti cercavano di sfuggire alla signora morte.

Durante il fuggi fuggi ogni tanto guardavo indietro per capacitarmi, è stato in un momento di questi che ho visto con raccapriccio lo scoppio sul tetto della bomba che ha distrutto completamente il reparto elettrico (estremità ovest).

Arrivato nella campagna dopo la casa colonica (oggi trasformata), mi sono fermato ed incominciai a pensare a casa mia, alla mia famiglia.

Feci una deviazione verso ovest (sponda del Brembo), piano piano sorpassando buche enormi (causate da bombe di 5 quintali) mi incamminai verso Mariano.

Il primo che vidi fu mio padre che mi stava cercando, fu lui che mi diede la notizia delle tragedie avvenute al mio paese (vedi famiglia Cividini, famiglia Brembilla, famiglia Zambelli), e di tutti gli altri morti che si aggiungevano al già triste primato di Mariano.

Arrivo a casa e trovo la mia casa trasformata in pronto soccorso; e mia madre incurante del pericolo era entrata nello stabilimento a cercarmi. La casa era stata trasformata in pronto soccorso perché nel mio orto avevamo costruito un rifugio antiaereo e la protezione antiaerea ci aveva dotato di materiale sanitario. Lì venivano portati i feriti in attesa dei camion che li portavano negli ospedali.

Era già pomeriggio inoltrato quando l’ultimo dei miei familiari fece ritorno a casa. Purtroppo non tutte le famiglie di Mariano furono così fortunate, chi il padre, chi il marito chi il fratello non fece ritorno, raggiungendo il triste primato di 32 morti.

Ricordo il triste giorno in cui facemmo il funerale di 22 nostri concittadini (gli altri furono trovati molto tempo dopo). Anch’io facevo parte della folta schiera di portantini (allora non c’erano le pompe funebri).

I giorni che seguirono furono per me di abulia completa, a parte il dolore derivato dai lutti (morte degli amici e dei conoscenti) non riuscivo a capacitarmi dell’accaduto e mi domandavo il perché di tanta ferocia e di tanto sangue innocente, il perché gli uomini arrivano a odiarsi così tanto…

Fu per me un periodo di profonda riflessione e mi ha fatto capire che la guerra porta solo lutti e dolore senza risolvere niente.”

Un altro resoconto di quella giornata ci viene fornito dalla signora Maria Fumagalli e Maria Zanotti Gaburri che così raccontano quella drammatica esperienza:

“E’ ancora bene impressa in noi quella triste mattina del 6 luglio 1944. Erano circa le 11:00 quando si vide il cielo solcato da grossi aerei, ne abbiamo contati almeno una ventina, ma non avendo sentito l’allarme non abbiamo prestato molta attenzione, però di li a poco ad intervalli di due minuti c’è stato l’inferno; si fece quasi buio, ed anche la nostra casa posta in via Pascolo ha subito gravi danni al tetto e finestre, mentre la casa del Sig. Luigi Cividini, distante circa 500 metri era una maceria unica.

Ogni giorno i piccoli Cividini venivano a casa nostra, ma quella mattina per diversi motivi non sono venuti, a cominciare da quella più grande Maria, la quale doveva andare a Bergamo, ma, essendo rotta la bicicletta, ha dovuto rinunciare.

L’altra figlia Felicina avrebbe dovuto venire con noi al teatro (vecchio asilo), per fare le prove di una recita, cantando una canzoncina, l’orario era fissato per le ore 11:00, ma, per l’indisponibilità del chitarrista (il povero Francesco Maffioletti) e quella del Sig. Serafino Fumagalli, le prove furono spostate alle 11:30.

Quella mezz’ora è stata fatale all’amica Felicina, che avrebbe dovuto cantare una canzone alla figlia (nella recita faceva la parte della mamma). Noi ricordiamo ancora la prima strofa che diceva:” Tu cominci un lungo viaggio, ma chissà se verrai tu, figlia mancami il coraggio di dirti addio, non posso più”.

Felicina invece è morta assieme alla mamma e ai suoi fratelli, iniziando lei stessa quel lungo viaggio.”

Dal diario del Parroco di Dalmine, don Sandro Bolis:

“…verso le tre del pomeriggio, cessati i soccorsi attorno ai feriti, incominciai il trasporto delle salme dallo stabilimento alla chiesa parrocchiale che spalanca le sue porte come madre pietosa ad accogliere tutti quei corpi sanguinanti e ormai privi di vita.

A sera ci sono già 160 salme allineate all’interno della chiesa, sgombra dei banchi fatti portare fuori.

La chiesa (pure colpita benché in modo non grave) è diventata un’immensa sala mortuaria, mentre si susseguono scene indescrivibili di pianto e di dolore e mentre, ogni tanto, falsi allarmi gettano panico tra la gente che fugge terrorizzata…”.

 

Fonte: “Appunti sulla storia di Mariano” di Mario Colombo